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IL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO DOPO IL JOBS ACT

Il DL n. 34/2014 convertito in Legge 78/2014 ha modificato gli artt. 1, 1 – bis, 2 e 4 del D.lgs. 368/2001 semplificando l’intera disciplina.

Sparisce la causale per tutti i contratti a termine che, pertanto, non dovranno più riportare l’indicazione delle ragioni giustificatrici (tecniche, organizzative, produttive e sostitutive) prima obbligatorie

Tutti i datori di lavoro, quindi, possono liberamente stipulare contratti a termine purché gli stessi non superino complessivamente la durata di 36 mesi, proroghe comprese.

Viene meno l’art. 1-bis, abrogato, che fu introdotto dalla Riforma Fornero per consentire l’acausalità del solo primo contratto a termine stipulato tra datore di lavoro e prestatore di lavoro: ad oggi, quindi, non vi sono limiti se non quelli della durata massima di 3 anni, già conosciuta.

L’apposizione del termine deve comunque risultare da atto scritto ed il datore di lavoro non può stipulare contratti a termine in misura maggiore al 20% dell’organico complessivo: si fa salvo, comunque, l’intervento della contrattazione collettiva in materia di limiti quantitativi al contratto.

In questo modo, infatti, il datore di lavoro dovrà limitarsi unicamente a “contare” materialmente il numero dei propri contratti a termine e alla proporzione con l’organico aziendale, al fine di evitare il superamento del limite.

 

Proroghe, rinnovi, limiti quantitativi

Viene modificato l’art. 4 per quanto riguarda la disciplina della proroga. In precedenza, infatti, era ammissibile una sola proroga del contratto ed in presenza di specifiche condizioni ovvero che “…sia richiesta da ragioni oggettive” oppure il datore di lavoro poteva semplicemente stipulare un nuovo contratto a termine nel rispetto del c.d. “stop and go” ovvero 10 giorni di pausa tra un contratto e l’altro se il primo aveva avuto durata inferiore di 6 mesi, portati a 20 giorni in caso di primo contratto di durata superiore ai 6 mesi.

Dopo il D.L. 34 il singolo contratto a termine può essere prorogato per un massimo di 5 volte.

Nessuna modifica alla disciplina dei rinnovi, che restano con il termine di 10 e 20 giorni, né modifiche alla prosecuzione del rapporto oltre la scadenza i cui termini restano fissati in 30 e 50 giorni a seconda della durata del contratto.

Al superamento del limite quantitativo del 20% viene prevista, al posto della conversione del contratto in uno a tempo indeterminato, una sanzione pecuniaria calcolata in proporzione al periodo trascorso con assunzioni oltre tale percentuale.

 

La forma del contratto

La legge prescrive la forma scritta per la valida apposizione del termine ad un contratto di lavoro; forma scritta dalla quale devono

derivare una serie di elementi che poi qualificano il rapporto di lavoro.

La forma scritta è richiesta ad substantiam, ovvero in sua mancanza, il termine si considera nullo ed il rapporto di lavoro convertito in tempo indeterminato sin dall’inizio, con tutte le conseguenze in termini di:

1) anzianità;

2) computo nell’organico;

3) disciplina del recesso e preavviso;

4) tutti gli altri istituti previsti dal c.c.n.l. di riferimento.

 

Il patto di prova

Il patto di prova deve necessariamente avere una durata delimitata nel tempo e viene connesso allo svolgimento di specifiche mansioni.

E’ chiaro che una corretta indicazione (nel contratto) della qualifica, inquadramento e mansioni attribuite al lavoratore diviene elemento e condizione di efficacia del patto di prova stesso poiché il lavoratore deve essere messo in condizione di conoscere ed accettare l’oggetto su cui verterà il periodo di prova: nessun dubbio che il patto possa essere validamente previsto anche in un contratto la cui durata per definizione è delimitata nel tempo.

 

Esclusione di alcune categorie dal contratto a termine

Il contratto a termine non può essere utilizzato per tutti i lavoratori poiché la legge prescrive in modo inderogabile l’esclusione di alcune categorie da questa forma contrattuale per evitare possibili lesioni o conflitti con i diritti.

L’art. 3, D.lgs. 368/2001, infatti, esclude espressamente:

a) la stipula di un contratto a termine per sostituire un lavoratore in sciopero, poiché si finirebbe per sminuire un diritto costituzionalmente garantito;

b) la possibilità di stipulare contratti a termine all’interno di unità produttive dove nei precedenti 6 mesi si è proceduto a licenziamenti collettivi per mansioni analoghe a quelle oggetto del contratto a termine;

c) la possibilità di stipulare contratti a termine nelle unità produttive in cui è in atto una cassa integrazione (salvo, ovviamente le recenti modifiche ed il passaggi all’Aspi);

d) la possibilità di stipulare contratti a termine in aziende che non hanno effettuato la valutazione dei rischi così come previsto dal Testo Unico 9.4.2008, n. 81.

 

La proroga del contratto a termine

Il D.L. 47/2014 convertito in legge 78/2014 inoltre ha rimodulato la questione relativa alla proroga del contratto a termine.

Resta fermo che la proroga del contratto a termine è ammissibile solo in presenza di 2 condizioni:

1) il consenso del lavoratore

2) il contratto stipulato sia inferiore a 36 mesi
Con la riforma introdotta dal Jobs Act inoltre è stato specificato che le proroghe possibili sono massimo 5 nell’arco dei 36 mesi con il medesimo datore di lavoro ed a prescindere dal numero di rinnovi; pertanto anche volendo stipulare una serie di contratti a termine diversi tra di loro, l’interpretazione letterale della norma fa si che comunque le proroghe non possano mai essere superiori alle 5 complessive.

 

La successione tra i vari contratti

L’attuale disciplina vigente stabilisce i termini definiti del c.d. “stop and go” tra un contratto a termine e l’altro in caso di rinnovo.

Il nuovo dettato legislativo infatti prevede che in caso di contratto di durata inferiore ai 6 mesi l’intervallo di tempo tra un contratto e l’altro deve essere di 10 giorni che diventano 20 giorni.

Parimenti, in caso di prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il termine fissato nel contratto la legge stabilisce un limite di “tolleranza” onde evitare l’automatica conversione del rapporto; a questo fine quindi viene previsto che se il contratto inizialmente stipulato ha una durata:

– inferiore ai 6 mesi, la prosecuzione è ammessa sino ad un limite massimo di 30 giorni;

– superiore ai 6 mesi, la prosecuzione è ammessa sino ad un limite massimo di 50 giorni.

 

La cessazione del rapporto di lavoro a termine

Il primo criterio per la cessazione dal rapporto di lavoro è attendere la naturale scadenza del contratto: molto spesso nel contratto è inserita la clausola secondo la quale al momento della

scadenza lo stesso si estingue senza bisogno di alcuna comunicazione da parte del datore di lavoro.

In realtà, questa clausola non è necessaria in ragione di un principio codicistico che fa del termine ultimo la motivazione prima e legittima di risoluzione di un rapporto di lavoro.

Resta, in ogni caso, salva per il lavoratore la facoltà di impugnare il termine apposto al contratto che ai sensi della nuova disciplina deve avvenire entro 120 giorni dalla scadenza stessa e poi deve essere seguito, pena la decadenza, dal deposito del ricorso entro i successivi 180 giorni.

 

Recesso anticipato

Il recesso deve necessariamente essere determinato dalla giusta causa (art. 2119 c.c.); la specifica si richiama a quel vincolo fiduciario che lega due parti e che nel caso del contratto a termine è ancora di più forte vista la specialità del rapporto che viene giustificato da particolari ragioni.

Viene invece esclusa la possibilità del recesso anticipato:

1) per giustificato motivo soggettivo (una giusta causa più lieve);

2) per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, la soppressione del posto).
La risoluzione consensuale

Le parti di comune accordo dichiarano di volere recedere dal rapporto senza alcuna pretesa reciproca.

In molti casi, tuttavia, viene prevista una forma di indennizzo per una delle due parti.

E’ sempre richiesta (e preferibile) la forma scritta ad probationem ed a tutela da future pretese non gradite.

Dopo il Collegato lavoro 2010 che ha introdotto l’obbligo di impugnazione dei licenziamenti e del termine apposto ai contratti la mera inerzia del lavoratore diviene fatto concludente da cui si desume la volontà del lavoratore di non impugnare il contratto.

Anche in questo caso il principio è quello civilistico stabilito dall’art. 1372 c.c.

In tutti i casi sopra esaminati comunque trattandosi di lavoro a termine non vi è il diritto al preavviso che rimane un istituto tipico del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

 

La conversione

In caso di violazione delle disposizioni prescritte dalla legge per la valida apposizione del termine al contratto il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato in ragione della nullità parziale che investe solo la clausola del termine (ovviamente) e non l’esistenza di un contratto di lavoro.

 

Recesso illegittimo

Nel caso di recesso illegittimo da un contratto a termine non si ha

diritto alla tutela reale ex art. 18, l. 20.5.1970 n. 300, né quella obbligatoria ex l. 604/1966 in quanto tale disciplina è propria dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato: ben diverso è il discorso se il rapporto a termine viene convertito poiché anche in questo caso si vedrebbe applicata la tutela reale o obbligatoria.

 

L’impugnazione del termine ed il ricorso al Giudice del lavoro

Le esigenze di celerità del processo sono alla base della riforma introdotta con il Collegato lavoro 2010 che ha previsto alcune modifiche interessanti anche in materia di contratti a termine.

Infatti, se fino al novembre 2010 (entrata in vigore del Collegato), il lavoratore poteva agire in giudizio per l’accertamento e la dichiarazione della conversione del rapporto in tempo indeterminato con l’unico limite della prescrizione quinquennale la Riforma ha invece abbassato tale termine ed ha introdotto alcuni obblighi formali al pari di quanto avviene per il licenziamento:

1) la nullità del termine o la comunicazione di disdetta/recesso dal rapporto di lavoro a termine (anche se intimata dopo la scadenza), deve obbligatoriamente essere impugnata con atto scritto entro 60 giorni dalla comunicazione: questo termine è stato di recente esteso a 120 giorni da parte della Riforma Fornero;

2) successivamente all’impugnazione, il lavoratore deve depositare il ricorso ex art. 414 c.p.c. entro il termine perentorio di 270 giorni (decorrenti appunto dall’impugnazione), pena la decadenza da ogni diritto connesso al contratto a termine, con la sola eccezione delle differenze retributive per le quali continua ad esistere il termine di 5 anni di prescrizione: anche in questo caso, si rileva, la Riforma Fornero è intervenuta ed ha ridotto da 270 a massimo 180 giorni il termine per il deposito del ricorso.

E’ interessante notare come il Collegato lavoro, da un lato, ha finito con obbligare l’impugnazione di ogni atto scritto di recesso, lasciando fuori solo il licenziamento verbale poiché sostanzialmente inesistente e dall’altro ha legato l’efficacia dell’impugnazione alla condizione sospensiva caratterizzata dalla proposizione dell’azione giudiziale nei successivi 180 giorni.